Scrivere un romanzo è spesso un atto istintivo, specialmente all’inizio.
Le parole scivolano sulla pagina, guidate dall’entusiasmo, dall’urgenza, dalla voglia di raccontare.
È normale. È bello. È necessario.
Ma poi arriva il momento più difficile: togliere.
Togliere ciò che serve solo a noi.
Togliere le spiegazioni superflue.
Togliere le parole di troppo, anche se le amiamo.
Ernest Hemingway lo sapeva bene. Con il suo celebre “metodo dell’iceberg”, scriveva solo ciò che il lettore doveva “vedere”: la punta. Tutto il resto — emozione, tensione, dolore — restava sotto, invisibile ma potente.
La scrittura narrativa di chi scrive per mestiere, non dice e non mostra tutto, ma lascia spazio all’immaginazione di chi legge.
E qui sta la differenza.
Un romanzo scritto per bisogno personale è un inizio. Ma un romanzo progettato per emozionare, per creare connessioni, per lasciare qualcosa a chi lo legge… è un atto di generosità, non più solo auto-espressione.
Il segreto è tutto lì: trovare l’equilibrio tra l’ego e il dono. Tra ciò che vogliamo dire e ciò che l’altro ha bisogno di sentire. Scrivere è spogliarsi, ma per abbracciare.
Per fare questo non basta l’istinto e non basta nemmeno il talento, serve anche una buona dose di conoscenza tecnica. Devi conoscere i ferri del mestiere.
La scrittura narrativa è artigianato.
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